Una delle cose che mi sento dire più spesso credo sia “Che pazienza che hai con i cavalli!” ma credo che non sia assolutamente vero. Il dizionario dice che la pazienza è la disposizione a sopportare con tranquillità e rassegnazione i disagi, le molestie altrui e le contrarietà della vita in genere.
Ma se è questa l’ottica con cui si vive il cavallo allora stiamo bloccando in partenza la possibilità di creare una comunicazione con lui.
Decidere di lavorare (o semplicemente stare) con un cavallo ti obbliga, o ti dovrebbe obbligare, a parlare con lui. E per parlare con lui bisogna trovare la lingua giusta per capirsi: e la lingua giusta è la sua!
Tutte le volte che un cavallo oppone resistenza, se pensassi di dover sopportare il suo comportamento vivendolo come un fastidioso disagio o come un insulto personale, beh .. starai guardando la cosa dal punto di vista sbagliato!
“Il cavallo fa una delle due cose: quello che pensa gli sia stato chiesto o quello che pensa di dover fare per sopravvivere” citando una frase di Ray Hunt.
In entrambi i casi la responsabilità del rifiuto, della resistenza, è mia. O perché non ho comunicato correttamente la mia richiesta nel primo caso, o perché non sono stato in grado di valutare il suo stato emotivo, ho affrettato i tempi o non ho calibrato correttamente l’intensità della richiesta, portando così il cavallo a agire secondo il suo istinto di sopravvivenza, nel secondo caso.
Se il cavallo si oppone lo fa per una ragione, sta a me trovarla e trovare la soluzione.
L’unica cosa sicura è che il cavallo non lo sta facendo per offendermi personalmente, per rovinarmi la giornata o per mettermi in imbarazzo e “insegnarmi la lezione”. Prendere le cose sul personale aggiungerebbe solamente inutile tensione ad una situazione che invece ha solo bisogno di equilibrio.
Per comunicare con un cavallo ed avere la risposta desiderata è necessario essere il suo punto di riferimento, e per esserlo bisogna essere coerenti ed una fonte di protezione. L’errore più grande da parte mia in questa situazione sarebbe quello di sfoderare il mio atteggiamento predatorio per difendere il mio ego ferito: questo riconduce tutto ad una situazione di conflitto in cui devono per forza esserci un vincitore ed un perdente che si contrappongono.
Eh sì, perché bisogna ricordarsi sempre che per natura noi umani sembriamo tanto dei predatori agli occhi dei cavalli, ed è facilissimo che lo sfogo di una frustrazione interiore risulti un’aggressività predatoria che porterà il cavallo alla reazione sbagliata per un’errata richiesta alla reazione da preda per l’istinto di sopravvivenza. Quindi sicuramente una svolta NON nella direzione desiderata.
Per il cavallo la teoria del vincitore e del perdente non esiste. Esiste la sicurezza. Il rapporto col cavallo prevede comunicazione e complicità.
La resistenza è l’unico modo che ha il cavallo per dirmi che quello che sto facendo non funziona. Me lo dice con il corpo e con il comportamento, in maniera istintiva e senza nessuna ragionamento. È una strategia difensiva, un meccanismo di autodifesa profondamente radicato con cui reagisce a situazioni di stress fisico o mentale.
Tutte le volte in cui un cavallo oppone resistenza sta cercando a suo modo di comunicare con me e il suo comportamento è carico di informazioni.
L’unico modo per non sprecare queste informazioni è capire che la resistenza non è disobbedienza o mancanza di rispetto. E la risposta alla resistenza non può mai essere la punizione né tantomeno la forza.
L’uso della forza con i cavalli è la sconfitta dell’intelligenza umana.
Quando si ricorre a questa soluzione perché la frustrazione ha preso il posto della conoscenza, si rinuncia ad ogni possibilità di comunicazione.
Quindi no, non è pazienza, è dialogo.
La resistenza non è il risultato di una decisione che il cavallo ha preso, non è l’atto di un complotto contro di me, la resistenza non è disobbedienza. Magari il suo apparente “No” significa solo che gli serve più tempo, che gli fa male da qualche parte o che semplicemente non ha capito cosa gli sto chiedendo.
Dipende da me riuscire a interpretare e capire ciò che lui comunica e quindi in base a questo comprendere e decidere come agire.
Ogni cavallo deve essere trattato individualmente senza pretendere di poter applicare gli stessi metodi (che magari fino a quel momento hanno funzionato benissimo con altri soggetti) aspettandosi di ottenere gli stessi risultati.
Anche se il traguardo è lo stesso, i percorsi possono e, in certi casi devono, essere diversi.
È necessario per prima cosa conoscere il cavallo con cui si sta lavorando, osservarlo e ascoltarlo per permettergli di acquisire quella sicurezza necessaria per approcciarsi alle situazioni che gli vengono proposte con un atteggiamento curioso e rilassato. E facendo questo si evita in partenza il rifiuto per un’errata richiesta.
Quindi prima cosa da fare: osservare e ascoltare il cavallo per poter entrare in sintonia con lui.
Per riuscire in questo intento devo adattare a lui quello che so già e cercare nuove strade quando quelle che conosco diventano un vicolo cieco che va a sbattere contro il muro di resistenza del cavallo.
E in questo caso l’unica cosa che per me si può fare è tornare qualche passo indietro, allo svincolo precedente, riprendere la lezione da un punto che per il cavallo è familiare, ritrovare quindi la tranquillità e poi da lì muoversi di nuovo al di fuori della sua zona di comfort, ma essendo una buona guida capace di trovare la strada giusta per essere seguita serenamente fino al raggiungimento dell’obiettivo.
Quindi no, non è pazienza, è logica.
Si potrebbe lasciare per sempre il cavallo all’interno della sua zona di comfort dove, è vero che non c’è resistenza, ma non c’è nemmeno crescita. Ma lì fuori c’è il mondo reale e presto o tardi il cavallo si troverà in situazioni che lo obbligheranno ad uscire da quella zona di comfort ed è mio preciso dovere prepararlo per tempo a gestire i suoi stati emotivi anche in situazioni non conosciute.
Quindi non è rimanendo nella zona comfort che risolviamo i nostri problemi, non dovendo così affrontare una possibile resistenza da parte del cavallo. Perché si tratta solo di una quiete apparente che però non blocca la possibilità di trovarsi in situazioni fuori dalla zona comfort del cavallo, ma blocca sicuramente invece la possibilità di imparare a gestire (ad affrontare) anche quelle situazioni impreviste.
Con l’addestramento devo fare in modo di mantenere su di me l’attenzione del cavallo anche al variare dei contesti, delle situazioni e delle richieste.
All’attenzione segue sempre un comportamento da parte del cavallo e, quando la richiesta è sbilanciata rispetto alla sua preparazione fisica o emotiva, il risultato può essere una reazione di paura.
Il mantenimento di uno stress positivo (eustress) è indispensabile per avere l’attenzione del cavallo in quanto quella dell’attenzione è la stessa base biologica di altre reazioni veramente stressanti ed emotivamente dannose.
Per questo motivo è importante e fondamentale conoscere il cavallo, per poter calibrare ed adattare le richieste, ed è per questo che non c’è “un metodo”, perché ogni cavallo è un singolo individuo unico, e sta a me capire per ognuno come avere l’attenzione senza rischiare di fare richieste sbilanciate perché appoggiati ad un “metodo” che ha sempre funzionato.
Quando ci si spinge troppo in là, i riflessi istintivi del cavallo fanno aumentare il suo battito cardiaco e mandano più sangue ai muscoli per prepararlo alla fuga o a dare battaglia. In ogni caso, magari anche senza volerlo, l’ho portato in una zona in cui ogni possibilità di apprendimento è preclusa perché, in quella zona, è l’istinto di sopravvivenza che prende il comando. L’unico modo per non superare questo confine, passando dall’attenzione alla paura, è considerare ogni suo comportamento come un’informazione di valore.
Il cavallo trasmette in continuazione segnali con il suo corpo, le narici, le orecchie, l’espressione degli occhi: sono come delle piccole finestre che permettono di vedere cosa sta succedendo nella sua testa.
Quindi no, non è pazienza, è ascolto.
Ricorrere a metodi sbrigativi non è la soluzione.
Considerando il mondo in cui viviamo, frenetico ansioso frettoloso, è diventato normale essere ossessionati dalle scadenze e dall’ottenere risultati alla svelta, ma applicare questa tendenza anche quando si lavora con un cavallo può avere effetti disastrosi.
Il cavallo non è un lavoro da finire, un foglio da compilare o una casa da costruire: è un essere vivente e senziente e per ottenere risultati bisogna creare ed avere le basi e non distruggere con la fretta.
Sarebbe un po’ come se piantassi qualcosa con l’obiettivo di farla crescere sana e forte per poi, preso dall’impazienza e dall’ansia da prestazione, iniziassi a tirare il germoglio per farlo crescere più in fretta. L’unico risultato che otterrei sarebbe quello di strappare le radici e, nel caso del cavallo, sarebbero le radici della sua fiducia.
Il cavallo non serba rancore, ma ricorda gli abusi e le brutte esperienze e, per istinto di sopravvivenza, cerca di proteggersi dal loro ripetersi. Un errore può spesso trasformarsi in un problema più grande che può perseguitare il cavallo per il resto della sua vita. È spesso il caso di cavalli, apparentemente calmi, che in realtà si sono isolati in loro stessi chiudendo le porte della comunicazione perché hanno perso fiducia nel loro interlocutore.
Questo si può evitare con un po’ di attenzione: attenzione a quello che il cavallo dice e comunica in ogni suo piccolo movimento, attenzione a cosa gli si chiede e come glielo si chiede, rimanendo un punto di riferimento coerente e facilmente comprensibile, attenzione alla situazione, è l’uomo che tramite la logica può analizzare una situazione e reagire a seguito di un ragionamento, soprattutto in una situazione difficile o in cui qualcosa è andato storto.
La scelta di come vivere il cavallo e di come farlo vivere è tutta nelle mani dell’umano che se ne occupa.
Un cavallo che si trova bloccato nella trappola dell’impotenza appresa, vive nella convinzione che, qualunque cosa faccia, il suo comportamento non potrà modificare la situazione in cui si trova. È una prigione psicologica silenziosa e brutale costruita spesso durante l’addestramento con metodi sbrigativi e coercitivi per arrivare velocemente ad un risultato vincendone la resistenza e influenzando per sempre il modo del cavallo di percepire se stesso e il mondo.
Quindi no, non è pazienza, è l’opportunità di guadagnare la sua fiducia.